giovedì 15 maggio 2025

Joan Didion

È come infilarsi in un labirinto. Non è un libro scritto da Joan Didion: ritrovato soltanto nel 2021, poco dopo la sua scomparsa, il Diario per John è composto per una buona metà dalle valutazioni e dai commenti del suo analista all’interno di un intricato dialogo che comprende lei, lui, il marito, a cui sono dedicate le trascrizioni, e persino le opinioni del medico della figlia Quintana. Il Diario per John è il lato oscuro che L’anno del pensiero magico aveva in qualche modo ha superato: laddove la sofferenza veniva sublimata, qui è un’operazione segreta a cuore aperto, e ancora in corso, le cui finalità restano ambigue. Le discussioni di Joan Didion ruotano attorno a una questione spinosa, e irrisolta, la dipendenza di Quintana. I tentativi della famiglia di aiutarla sono tanti, ma “ogni via porta con sé dei dubbi”. I colloqui si ripetono per tre anni, dal 1999 al 2002, in cerca di un’opportunità per tutti, ma il più delle volte la sensazione è quella strisciante di un conflitto senza soluzione che induce Joan Didion a ripensare anche al proprio tempo: “Era una riflessione generale su a che punto eravamo delle nostre vite, sul desiderio di lavorare di più su qualcosa che valesse la pena e meno sul superfluo”. Essere felici è una decisione e lei ammette che “così sto io adesso” di fronte a tanta angoscia, e a quello che, passo dopo passo, pare un vicolo cieco. Il confronto con il dottor MacKinnon da una parte e con il marito dall’altra è serrato e continuo, anche se non porta a nessuna conclusione concreta. La trascrizione è accurata e minuziosa e si ha l’impressione che la scrittura, almeno nel caso specifico del Diario per John, costituisca uno strumento di autodifesa e un’occasione riservata per considerare “il tirare le somme della propria vita, a cosa era valso vivere, quale eredità si lasciava”. La sofferenza dei genitori è una palude ed è evidente che gli strumenti intellettuali e culturali di Joan Didion, per quanto enormi, non risultino adeguati. La rappresentazione della sua incapacità di affrontare con i termini giusti il subbuglio generato dagli stati di alterazione alcolici di Quintana è esemplare: “Pensavo venisse dalla retorica di frontiera che mi era stata inculcata da piccola. Molla le valigie, scarica il pianoforte, i libri, il baule di palissandro della nonna, o non arriverai a Independence Rock in tempo per raggiungere la Sierra prima che inizi a nevicare”. L’impatto è drastico, emotivo e tragico (compresi un suicidio e un omicidio in famiglia) e la ricerca delle responsabilità la porta a confessare la sua esigenza di avere un controllo, su tutto: “Non c’è dubbio che sia sempre stata esageratamente apprensiva. Le ragioni della mia apprensione possono non essere importanti quanto il semplice fatto che lo sono stata”. Nei tentativi di trovare un appiglio a cui aggrapparsi Joan Didion conferma di avere “una capacità altamente sviluppata di compartimentalizzare”, ma assecondando le logiche incalzanti di MacKinnon deve rassegnarsi a una sorta di resa incondizionata: “Credo di aver messo a fuoco solo ora di non essermi mai preparata, di non essere per qualche motivo riuscita a prepararmi, ad avere questa età, a ritrovarmi dove sono”.  Attraverso le paure, le malattie, le incomprensioni e la fatica di intravedere un barlume di serenità, le esigenze di Joan Didion si fanno così più limitate, al punto di confidare nel Diario per John: “Spesso mi veniva da pensare che sarebbe bastato prendersi una settimana libera. Non sentirsi sotto pressione, riordinare la casa, sistemare i fogli al loro posto”. Non è mai stato così, eppure anche in questi appunti confidenziali e privati, Joan Didion si chiede quali congiunzioni sia meglio usare: come se le stesse fuggendo qualcosa e una virgola, o un punto o una parola potessero cambiare qualcosa, ma poi resta soltanto dolore, acuto e illimitato.

mercoledì 14 maggio 2025

Garibaldi M. Lapolla

“L’America è il posto giusto”, ma è tutto da dimostrare. È un sogno e un progetto, una meta e un miraggio, una città da costruire e un oceano da attraversare. È l’idea del duro lavoro che risolve tutto, è l’occasione per “mettere a posto le cose”. Per Agnese, che è al centro di una spirale che comprende la chiesa, la famiglia, la comunità, il viaggio dall’Italia ha anche il valore di una riparazione. Attorno a lei il 
Fuoco nella carne avviluppa un coacervo burrascoso di amanti e/o spasimanti che comprendono Gelsomino, padre del figlio Giovanni, il marito Michele, il socio in affari Antonio, persino il dottor Grace, medico le cui attenzioni vanno un po’ oltre i doveri professionali. La processione di figure maschili, compreso il padre Gesualdo e il fratello Luigi, è solo il background delle movenze di Agnese che, fin dall’angosciosa traversata, è un polo magnetico che, nello stesso tempo, attrae e respinge. I suoi exploit riflettono lo spirito del luogo che, con un gran dispendio di energie, lei è convinta di interpretare così: “Siamo in America. Qui le cose non sono le stesse. Qui conta il tuo lavoro... Quello che fai... Quello che sei”. Lapolla estende la sua percezione alla scrupolosa descrizione dei bassifondi di New York e delle condizioni estreme di fame, povertà e fatica degli emigranti. La città sta crescendo in verticale e verso l’alto, la vita nella strade è orizzontale, e durissima. La volitiva Agnese, con o senza soci tra gli uomini, avvia imprese edilizie e di gestione dei rifiuti. L’obiettivo di avere “una casa tranquilla, la pace della routine, l’aspettativa di un affetto sincero” si risolve dentro relazioni tempestose dagli esiti concatenati e drammatici. È vero che “il futuro è lungo” e nel Fuoco nella carne si intravede già in due personaggi secondari, estremi e contrapposti: l’enigmatico Paul Vaniglia con la sua offerta di protezione e Gino Birrichino, votato al sacro ruolo dell’arte. Antichi riti, nuovi processi, realtà ancestrali e moderne si confondono in un tessuto sociale fluttuante mentre “le vecchie abitudini si erano arrotolate come serpenti, addormentati al caldo sole della buone sorte in America”. Man mano che procede, la narrazione di Fuoco nella carne si infittisce con flashback, riflessioni e cambi di prospettiva che spesso si sovrappongono, mentre un’ombra di stende sul miraggio dell’America, che già brulica di fantasmi. Il vocabolario di Lapolla è aspro, masticato, infarcito di espressioni dialettali e di bestemmie, come se ci fosse una parte arcaica e selvaggia che è resistita all’esodo iniziale. Il Fuoco nella carne “è un’energia che consuma e unisce i personaggi principali, alimentata dal bisogno di appartenenza, riscatto, amore e vendetta” scrive Erika Silvestri (che compie un piccolo miracolo di traduzione) e a New York i compaesani sono “animali in trappola”. Gli elementi melodrammatici che conducono al finale, con un incendio che brucia sullo sfondo, movimentano Fuoco nella carne e mai titolo fu più appropriato: è un romanzo generoso capace di rappresentare al meglio la frizione tra la cultura americana dei self made man e il misero bagaglio degli immigrati europei. Protagonista tra gli scrittori italoamericani della prima metà del ventesimo secolo, compresi Bernard DeVoto, Pietro Di Donato, Luigi Donato Ventura o Vincenzo D’Aquila, la voce di Garibaldi M. Lapolla esprime una lingua non filtrata, non edulcorata, spesso abrasiva che segue l’andamento traballante e imprevedibile di una canzone. È uno strano ibrido: crudo, naturale, fotografico e in bianco e nero e la sorpresa di una scrittura vicina al gergo e alle intonazioni dei quartieri dei dagos contiene tutta la volontà di affermazione e di riscatto che hanno contribuito alla nascita di una nazione con tutte le sue contraddizioni, nessuna esclusa.

martedì 6 maggio 2025

Lou Reed

Fuori dal mainstream, urticante fino alla fine, Lou Reed non è mai stato un interlocutore facile, ritenendo l’intervista una forma di comunicazione non molto distante dalla tortura. Eppure nei confronti diretti, ha saputo manovrare tra domande e risposte concedendosi ampi spazi per rivelare la sua personalità. Un “uomo complesso”, come dice Patti Smith nel suo “coccodrillo”, e non c’è dubbio, ma era anche “curioso, a volte sospettoso, un lettore vorace e un esploratore di suoni. Un oscuro pedale per chitarra era per lui un altro tipo di poesia”. Fin qui ci siamo e seguono gli incontri più ingombranti, quelli con Lester Bangs e William Burroughs. Con tutta la simpatia e la complicità possibili per Lester Bangs il suo tentativo di affrontare Lou Reed sullo stesso piano suona, a posteriori, abbastanza fallimentare. Di certo, quell’approccio, siamo nel 1975, mostra tutti gli anni che ha, e alla fine è anche giusto ricordare che Lester Bangs accettava la realtà che aveva di fronte: “Lou Reed è il mio eroe principalmente perché sta dalla parte. Di tutto ciò che di più strambo potrebbe mai venirmi in mente. Il che, probabilmente, non fa altro che dimostrare la limitatezza della mia immaginazione”. L’appuntamento con William Burroughs, mediato da Victor Bockris nel “bunker” di New York si risolve in uno scambio di battute nel nome della reciproca ammirazione e con gli ossequi a Jack Kerouac e Samuel Beckett. Non bisogna essere per forza accondiscendenti e Lou Reed non lo era, ma David Fricke, che almeno cerca di restare nel seminato, l’intervista ha più senso. Siamo nel momento di New York ed è chiaro che Lou Reed ha smesso di giustificarsi per aver elevato e condiviso i drammi e i bassifondi dell’esistenza. Il colloquio telefonico con Neil Gaiman, per come viene raccolto e descritto, merita di essere segnalato come una svolta nell’ambito del rapporto di Lou Reed con le interviste. Neil Gaiman riflette intorno a Between Thought And Expression, il libro dei testi e il box antologico. e Lou Reed riesce ad accordarsi e ad aprirsi, spiegando con chiarezza le sue intenzioni: “Capita di scrivere canzoni che sono semplice divertimento, il testo non potrebbe sopravvivere senza la musica. Ma per la gran parte delle cose che faccio, l’idea era quella di provare ad applicare uno sguardo da romanziere, e, nella struttura del rock’n’roll, provare ad aggiungere quel tipo di scrittura, così che chi ama farsi coinvolgere a quel livello potesse avere quella scrittura ma anche il rock’n’roll”. E sul finire della telefonata, confessa: “Ho tentato più che potevo di creare situazioni in cui io potessi prosperare. E questo è un dovere che sento: rimanere fedele al talento e far sì che possa esprimersi e prosperare”. Tutto bello e facile con Paul Auster, con cui ha collaborato per Smoke e Blue In The Face. Il dialogo è serrato e amichevole, uno finisce le frasi dell’altro. Paul Auster lo incalza: “Io penso che scrivere ti mantenga giovane. Ogni arte mantiene le persone attive, perché non smette mai. Continui a farlo finché crepi”. Dal canto suo Lou Reed conviene e ribadisce: “E c’è anche da dire che non ti fai dissanguare e prosciugare da un lavoro che non ti lascia esprimere, se quella è la cosa che ti fa respirare!”. Più ostica l’intervista con tale David Marchese: è un battibecco continuo ed è difficile non schierarsi con Lou Reed, che ci mette meno di un secondo a tirare fuori il suo lato scostante e ostile. Però, tra un silenzio e un alterco, riesce a definire le sue aspirazioni: “Hubert Selby. William Burroughs. Allen Ginsberg. Delmore Schwartz. Riuscire a ottenere quello che hanno ottenuto loro, in così poco spazio, con parole così semplici. Pensavo che riuscire a fare quello che erano riusciti a fare questi scrittori traslandolo su batteria e chitarra sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Avrei fatto strike. È un pensiero semplice. Non c’è niente di complicato in me. Sono la persona più regolare che ci sia”. Diciamo che, nel complesso, Lou Reed è stato un grande, i suoi intervistatori un po’ meno: Passeggiando sul lato selvaggio è un ritratto parziale, uno spezzone di una storia che ha ancora molto da rivelare, ma a suo modo funzionale perché traccia un profilo in modi differenti, spesso contrastanti. Resta l’ultimo, breve scorcio con Farida Khelfa, dove celebrando “il suono del vento, il suono dell’amore” ammette: “Nel rock’n’roll servono solo tre accordi, ero molto fortunato, era molto facile”. Ci siamo persi qualcosa? Eravamo rimasti che ne bastavano due (con tre siamo già nel jazz).

lunedì 5 maggio 2025

Henry Miller

Parigi e New York sono i poli verso cui rimbalza la Primavera nera di Henry Miller: l’idea di una città che si sdoppia nell’altra in un turbinio sfrenato di sogni e poemi, di volti e di orinatoi, di vagabondaggi ed esplorazioni, è una celebrazione che la trasforma in uno specchio e il suo riflesso è una sentenza: “Ciò che non è in mezzo alla strada è falso, derivato, vale a dire: letteratura”. Vicoli e angoli di Parigi sono il primo territorio delle avventure di Henry Miller ed è già consapevole che “puoi conoscere ogni strada di Parigi e non conoscere Parigi, ma quando hai dimenticato dove ti trovi e la pioggia cade lieve, all’improvviso vagando senza meta giungi alla strada per la quale sei passato tante volte nei tuoi sogni e per questa strada stai passando anche ora”. È una geografia particolare, quella che si riproduce nella sua voce senza pudori, in un flusso infinito che si fa ancora più voluttuoso nei  ritratti di New York. Dai porti ai grattacieli fino alle hall degli alberghi, una miriade di personaggi spuntano all’improvviso, ma “i ragazzi che hai adorato quando la prima volta sei sceso in strada restano con te per tutta la vita”. La direzione del tempo è biunivoca: il passaggio del testimone a Brooklyn da Walt Whitman e a Coney Island verso Lawrence Ferlinghetti, ricorda che ci sono progenitori e successori, anche se poi Primavera nera è dominata da una “Scarsa visibilità: previsioni per il Bronx, l’America, il mondo moderno tutto. Scarsa visibilità accompagnata da grossi scrosci di risa. Nessuna nuova stella all’orizzonte. Catastrofi... Solo catastrofi”. Parigi è lontana e Henry Miller è persino profetico quando osserva il suo paese: “Vedo nell’America l’origine dei disastri. Vedo l’America come una nera maledizione sulla faccia della terra. Vedo subentrare una lunga notte e vedo quel fungo che ha avvelenato il mondo inaridirsi alle radici”. È una constatazione  double face che lo tocca nel profondo: “Come uomo del continente americano, non riuscivo a credere che esistesse un posto sulla terra dove un uomo potesse essere se stesso”. La costruzione mentale coincide con la scrittura, come se fosse uno strumento per definire una personalità, o con la pittura (“Il disegno è una semplice scusa per il colore”), nessuna distinzione tra arte, vita e follia e mentre “ogni cosa si sbriciola e rovina, ogni cosa scintilla, oscilla, vacilla, barcolla”, diventa un’occasione per “vivere i propri desideri, darvi fondo nella vita, tale è il grande disegno dell’esistenza”. Henry Miller in Primavera nera si dimostra uno scrittore infinito, nel senso che non si ferma mai: in tutti i volti che si susseguono, una ben stramba umanità, ritrova un po’ di se stesso ed è una ricerca complessa e istintiva, ogni deviazione pare definitiva, ma ogni istante è provvisorio perché, ammette: “Insomma, sono come un uomo che si sveglia da un lungo sonno e scopre di aver sognato”. È un tempo, un momento irripetibile (“Ho tale e tanta fretta di riversare fuori i miei pensieri che li supero di corsa nel buio”) che Henry Miller pare recepire con tutti i sensi, traducendoli con lo strumento improprio della scrittura: Primavera nera apre un varco nella capacità di trasfigurare gli aspetti personali in deviazioni universali e generali tanto che “ogni capitolo del libro che è scritto nell’aria addensa il sangue; la sua musica assorda l’ansia scatenata dell’aria esterna. La notte cade come il rombo di un tuono, mi deposita a terra, sulla strada dei pedoni che alla fine non porta in nessun posto, ma è allegramente circondata da raggi lucenti lungo i quali non si può tornare indietro né sostare”. Questa è l’unicità di Henry Miller, che poi troverà conseguenze e maggiori espressioni in seguito, ma che in Primavera nera ha una sua peculiare istintività e intensità. La scrittura è un processo irreversibile, un moto perpetuo che non lascia scampo, un tour de force che implica un tutto.  Tumultuoso e disinibito, Henry Miller si (e ci) proietta altrove con il suo gesto: “Scrivo dal nulla ogni giorno. Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io, tra costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e plasmare nuovi mondi”. Visionario, a Parigi come a New York.